Solo l'assoluta abnegazione e l'ardimento di cui ognuno ha dato prova superando ostacoli inenarrabili ha reso possibile l'impresa che ognuno di noi ricorderà come una memorabile avventura in un ambiente alpino di una bellezza selvaggia e mozzafiato.
24 giugno 2017: da Malga Frommer una seggiovia di una lentezza esasperante ci porta al Rifugio Fronza alle Coronelle ( mt. 2339 ) porta d'ingresso allo splendido gruppo dolomitico del Catinaccio. Nelle sempre concitate e complesse operazioni di preparazione alla discesa dalla seggiovia, un bastoncino sfugge dalle incaute mani del legittimo proprietario e per ritrovarlo viene impiegato tempo prezioso nell'impresa improba di setacciamento della desolata pietraia sottostante il rifugio.
Col morale alle stelle per l'insperato reperimento del bastoncino, iniziamo il cammino.
Al primo bivio subito commettiamo un banale errore d'orientamento che ci porta in uno sperduto e inospitale vallone desertico, dal quale non senza difficoltà ci riportiamo sulla retta via.
La successiva salita al Passo delle Coronelle ( mt. 2630 ) è già sufficiente a minare l'ilarità del gruppo e con essa le limitatissime capacità polmonari dei suoi componenti; la sensazione di disagio è acuita dalla tragica constatazione che è trascorsa poco più di un'ora dalla partenza. Fortuna vuole che sul valico le nostre magliette personalizzate da veri bischeri attirino l'attenzione di alcuni escursionisti che attaccando bottone, consentono al gruppo di riportare il battito cardiaco al di sotto della soglia della sincope.
Compiamo la discesa successiva verso il Rifugio Vajolet ( mt. 2241 ) con rinnovato slancio e ardimento, ma un inaspettato quanto traditore tratto di salita prima dell'agognata meta fa riaffacciare spettri di una ricaduta che sarebbe fatale e che solo poco prima pareva scongiurata.
Famelici come se avessimo attraversato il deserto del Sahara cibandoci di formiche e locuste, consumiamo un fiero pasto al rifugio, circondati da un panorama dolomitico sensazionale. E' un vero toccasana per rimettersi le forze: la conseguente pennichella nel prato, vera ciliegina sulla torta, è però ben presto guastata dal brontolio di tuoni sempre più minacciosi. La volontà di proseguire per un attimo vacilla, anche perchè spiaggiati sul tenero e profumato pratino antistante il rifugio, i nostri eroi paiono non avere alcuna intenzione di rialzarsi e riprendere il cammino, tanto più se volgono lo sguardo in direzione del verticale percorso di avvicinamento al rifugio Re Alberto, dove è previsto il pernottamento. L'ardimento e lo sprezzo del pericolo necessari per raggiungere una fama imperitura, alla fine prevalgono sulle perplessità di un vile quanto prematuro rientro sui nostri passi, quindi con l'occhio della tigre iniziamo il ripido tracciato aiutati da provvidenziali funi metalliche. Le nuvole sempre più minacciose sulle nostre teste non riescono a metterci le ali ai piedi: i nostri visi rosso pompeiano e i primi crampi tradiscono una fatica che nessuno pensava di dover mai patire in vita sua.
Fortunatamente il tempo regge e giungiamo, zoppicanti e ansanti l'ameno rifugio Re Alberto ( mt. 2621 ). Due di noi, infreddoliti e stravolti, si rintanano nell'accogliente tepore dell'edificio. Non ne usciranno più fino al giorno successivo.
Gli altri due, affamati di Dolomiti, gettando il cuore oltre l'ostacolo, toltisi le scarpe da trekking ancora fumanti d'orridi miasmi, esplorano i dintorni in ciabatte. Il dolore atroce degli aguzzi ciottoli sotto i piedi seminudi, viene ignorato di fronte allo spettacolo mozzafiato delle Torri del Vajolet che svettano verticali specchiandosi nel piccolo laghetto fuori dal rifugio.
La sera il rustico ricovero alpino è scosso da una tempesta senza precedenti: il temporale incessante quanto provvidenziale si protrae fino alle 12 del giorno dopo: è ovvio che il giro originale dev'essere rimodulato e accorciato. Sarà una vera benedizione.
Con passo incerto e guardingo sulle rocce ammantate di grandine, in tarda mattinata lasciamo per ultimi il rifugio Re Alberto per ridiscendere al Vajolet: apriamo la porta e veniamo investiti da una zizzola polare, la temperatura è precipitata a 6 gradi, ieri nella nostra Firenze donde siamo partiti, ne avevamo almeno 30 di più.
Terminata la discesa e tornati nei pressi del rifugio Vajolet, ecco che un tiepido sole squarcia il plumbeo grigiore della giornata. La successiva salita al Rifugio Passo Principe ( mt. 2599 ) è fatta in scioltezza: il comodo sentiero e la dolce salita sono superati di slancio.
Dopo il pasto, divorato con l'animalesca foga caratteristica imprescindibile del vero escursionista, è ora di riprendere il cammino: il rubicondo gestore del rifugio ci rassicura che la discesa dell'impressionante pietraia che si apre sotto di noi e la successiva risalita del ghiaione per il Passo Molignon sono assolutamente una passeggiata,
purchè si segua il sentiero che senza perdere troppa quota, lambisce le pareti verticali del Catinaccio.
Baldanzosi, e confortati dal verbo di chi conosce ogni pietra del circondario, il gruppo procede spedito verso il fondo del vallone. Ben presto ci accorgiamo che in numerosissimi punti il sentiero è interrotto da vere e proprie voragini. Salve di irripetibili moccoli riecheggiano cupi nel solingo e inospitale ghiaione, risultando se possibile, ancor più terribili. Quando tutto sembra perduto, ritroviamo la traccia, ma con orrore ci accorgiamo d'esser scesi quasi nel punto più basso del canalone: sconfortati e impauriti guardiamo il passo Molignon che dobbiamo conquistare, è lassù, in cima a una interminabile e apparentemente invalicabile salita.
La fatica è improba, nuovi e peggiori moccoli vorrebbero uscire dalle nostre cavità orali, ma il firmamento ringrazia la nostra totale e provvidenziale ( è proprio il caso di dirlo ) assenza di fiato.
Nel momento peggiore della salita affiora nelle menti offuscate dalla fatica la famosa frase: " Dai, potrebbe esser peggio, potrebbe piovere !" - Detto fatto, una pioggia fitta e insistente inizia a battere il gruppo.
Sono gli ultimi metri prima del valico del Molignon ( mt. 2598 ): ora sappiamo cosa deve aver provato Reinhold Messner mentre, solo e senza ossigeno conquista l'Everest sotto le tempeste Himalayane, anche se a dire il vero siamo a un'altezza di oltre 6000 metri sotto di lui: d'altronde nessuno di noi si chiama Messner.
Passo Molignon! Siamo dei fantasmi avvolti nella nebbia più fitta: solo le nostre vermiglie guance di rossor dipinte tradiscono la presenza di vita sotto ai nostri fradici ponchos che svolazzano sbattuti da folate di vento gelido. Contro ogni avversità ce l'abbiamo fatta.
E' addirittura tornato ad affacciarsi un timido sole, il diradarsi delle nebbie trasforma quello che sembrava l'inferno in terra in un fantastico panorama di vette dolomitiche.
Adesso, raggiungere il futuristico Rifugio Alpe di Tires ( mt. 2441 ) è poco più che una passeggiata di salute. Nel nuovissimo e accogliente rifugio pensiamo di meritarci la doccia in camera. Costa quanto la suite del Grand Hotel Danieli a Venezia, ma senza batter ciglio la confermiamo: ce lo siamo meritato. Nemmeno il tempo di ripigliarsi e alle 18 in punto veniamo chiamati a cena, ancor madidi di sudore. Le nostre timide rimostranze sull'orario ospedaliero del desinare sono perentoriamente messe a tacere dal gestore: ci dice che anche se la tariffa pagata prevede la mezza pensione non è obbligatorio mangiare. Obtorto collo, ma senz'altre esitazioni ci accomodiamo a tavola. Al termine dell'ottima cena, vorrei dire da ristorante stellato, ci accorgiamo che al di fuori dal rifugio il tramonto sta dando il meglio di sé e ci precipitiamo sul sovrastante Passo Denti di Terrarossa ( mt. 2490 ). Lo spettacolo che ci aspetta è sensazionale.
Torniamo al rifugio tra il lusco e il brusco. La taumaturgica doccia lava via ogni dubbio: si sta meglio qui che al Danieli.
La mattina successiva, dopo le foto di rito, iniziamo la discesa a valle: un incontro con alcune marmotte particolarmente socievoli è propedeutico al bivio dove imbocchiamo la traccia che cala nell'impressionante canyon del Buco dell'Orso.
La verticalità della parete che dobbiamo scendere fa nuovamente traballare la fede nelle nostre scarsissime capacità alpinistiche, ma con l'ausilio di funi di assicurazione la calata a valle è piuttosto agevole. Raggiunto il fondovalle la fermata d'obbligo nella fiabesca radura dal nome impronunciabile e verosimilmente intraducibile "Rechter Leger" è l'ultima tappa prima del ritorno alla civiltà, che avviene a San Cipriano in Valle di Tires.
Giro magnifico, superlativo, come la splendida compagnia.
La mia riconoscenza eterna agli amici di una vita che hanno condiviso con me questa straordinaria avventura: Lori, Cina e Marcus: un doveroso pensiero va anche al Gobbo, assente giustificato.





Direi che i 50 li hai festeggiati degnamente e con orizzonti ambiziosi ed entusiasmanti. Oltre che con degni compagni. Diciamo che il racconto mi è stato molto utile e stimolante e mi sono segnata un percorso che non farò... Grazie per le immagini.
RispondiEliminaCara Melania in determinate circostanze la fatica è una gioia. È stata una esperienza che consiglierei di cuore a tutti. Tant'è vero che abbiamo deciso di ripeterla.
EliminaBellissimo giro!!complimenti...certo la maglietta lascia molto a desiderare...ahahahahah!!complimenti a Tutti
RispondiEliminaTutta invidia...ognuna è personalizzata con la faccia del proprietario. Abbiamo avuto un successo planetario!
EliminaDivertentissimo racconto e splendido percorso!! L'ho fatto in luglio al contrario. Complimenti :-)
RispondiEliminaComplimenti a lei Viola per il nome, apprezzatissimo da chi come me è fiorentino. Spero che abbia fatto il giro in condizioni fisiche migliori. Ultimo ma non ultimo, grazie infinite per l'apprezzamento. Saluti !
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